Intervista ai Bedsore: saper guardare oltre.

Scritto da il 26 Novembre 2024

Doveva accadere prima o poi: l’eco virulento di Hypnagogic Hallucinations – loro debutto del 2020 –  ha colpito anche da noi. Ne siamo rimasti affascinati così tanto, da decidere di contattare la band per far loro qualche domanda. I Bedsore sono capitati come il classico fulmine a ciel sereno nel panorama italiano, firmando – dopo una prima demo – per la 20 Buck Spin di Dave Adelson, una gran mossa che gli ha dato modo di farsi apprezzare ovunque da subito. Stiamo parlando di un’etichetta americana che l’anno prossimo raggiungerà il traguardo dei primi 25 anni di esistenza. E non è la prima volta che il sig. Adelson rimane colpito da una band italiana, visto che nel suo catalogo ci sono anche i Fulci.

 

D: Benvenuti ragazzi, il pensiero non può che andare subito ad un compleanno importante: quest’anno la radio italiana compie 100 anni (mentre noi sei😄). Cosa ha rappresentato, o rappresenta per voi, questo potentissimo mezzo di comunicazione?
R: Bella domanda e, a proposito, auguri per il vostro sesto anniversario! Intanto, la nostra generazione è per età anagrafica figlia delle TV commerciali, il che purtroppo eclissa in parte quella fascinazione propria di coloro che hanno vissuto l’auge delle buone vecchie onde radio. Non per questo però dobbiamo dimenticarci di come la radio abbia avuto un impatto enorme nella nostra formazione musicale e di chi è venuto prima di noi, sia come puro mezzo di avvicinamento alla nuova musica, sia per quanto riguarda tutta quella tecnologia e tecnica musicale che si è sviluppata proprio grazie all’esperienza del broadcasting (per citarne una, quella ben nota di Bernard Herrmann alla
BBC Radio, senza dubbio un grande esempio).

Crediamo che la radio però, forse più di tutto il resto, abbia svolto questo arduo compito di unire per la prima volta tutta una serie di realtà sociali culturalmente disorganizzate e
fisicamente lontane, basando un ponte per l’inclusione e la circolazione delle idee. La radio, come mai prima di allora, ha coinvolto i propri ascoltatori in prima persona e li ha resi parte di una più ampia esperienza collettiva, sintetizzando assieme masse di persone, ma specialmente di pensieri, apparentemente inconciliabili: un risultato che, questo si, ci desta ancora oggi una grande fascinazione!

D: Entriamo nel vostro mondo, dal nome che crea sgomento e confonde, e che fa capire quanto siate legati alla vecchia scuola: quali le vostre influenze? Non solo nella musica, ma anche nella letteratura, pittura, in ciò che apprezzate e arricchisce le vostre vite.
R: Come hai fatto notare, il nome Bedsore ha una doppia chiave di lettura, che a nostro parere più che confondere evoca un senso di ricerca dietro le apparenze. Se infatti viene inteso come “bed-sore”, il nome significa “sofferenza del letto”, e identifica nel giaciglio il portale attraverso il quale giungere in un regno dominato da paure inconsce, visioni oniriche e manifestazioni grottesche. Questo ci ricorda come ciò che apparentemente promette una condizione di comfort può improvvisamente diventare, per paradosso, una fonte di profondo tormento e dolore.
Per tornare alla tua domanda, siamo sicuramente stati influenzati da band cult come Death, Carcass e Autopsy, ma come ogni punto di partenza è stato integrato nel corso del tempo. Nel nostro caso ci siamo guardati intorno e indietro allo stesso tempo e ci siamo lasciati toccare sia da fonti prossime a noi come l’attuale scena metal sperimentale, che da eredità più lontane (ma non per questo meno vive) come quella della tradizione del progressive rock italiana. Ovviamente le influenze musicali non bastano per descrivere un mondo di idee e suggestioni.

Siamo tutti grandi fruitori di arte e non riusciremmo di certo a farne una cernita esaustiva. Parlando nel caso specifico di Dreaming the Strife for Love, ci hanno affascinato alcune opere di artisti come Agostino Arrivabene (in particolare il dipinto San Giorgio e il drago), Alessandro Sicioldr o Sergio Padovani; per quanto riguarda la letteratura poi c’è il romanzo che lo ha ispirato direttamente, l’Hypnerotomachia Poliphili (1499), anche se di questo ne parleremo più avanti.

D: Film preferito o pellicola che vi ha influenzato durante la composizione? Volendo trovare una similitudine coi nuovi pezzi possiamo fare un azzardo col cinema d’essai?
R: Sarebbe impossibile scegliere un film preferito, possiamo però citare la nostra città (Roma) e qualche luogo fisico che ci ha stimolato a tutto tondo durante il processo di composizione del nuovo Dreaming the Strife for Love. Questi ultimi sono di certo il Parco dei Mostri di Bomarzo, Villa D’Este, Piazza della Minerva, L’Isola Tiberina, Palazzetto Zuccari e
diversi altri luoghi storici ed intrisi di magia sparsi per lo stivale: questo, anche in virtù delle intime connessioni con il romanzo a cui si ispira questo album, l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna (1499).
Dei film invece ci coglie ogni volta un lato diverso, soprattutto l’atmosfera, i colori, gli aspetti dialogici, le stesse colonne sonore… tutti elementi che ci ispirano in maniera sinestetica. Possiamo però dirti che siamo molto legati al cinema e in particolare quello italiano, sia di  vecchia che di nuova fattura (Monicelli, Fellini, Sorrentino, Guadagnino, Antonioni); specie quello che pone una connessione tra l’idea – e la paura – dell’incomprensibile (Argento, Fulci) e assieme quel realismo magico di eco calviniana che sa donare, invece, un aspetto fiabesco e morbido alle narrazioni rappresentate (ci viene in mente “Il Racconto dei Racconti” di Garrone). In fondo riteniamo che ad averci ispirato siano principalmente queste connessioni, che trascendono il linguaggio impiegato. Speriamo quindi che in qualche modo anche quest’opera lo sia: italiana e magica, intendiamo.

D: A distanza di quattro anni ritenete ci siano elementi migliorabili nel vostro debutto?
R: In realtà non ci sentiamo di dover migliorare qualcosa nel dettaglio, ma indubbiamente ci sentiamo diversi – e cresciuti – rispetto a quei giorni. Non necessariamente bisogna trovare un difetto in un lavoro precedente soltanto perché sta invecchiando. In qualche modo, un’opera d’arte rappresenta la fotografia istantanea dell’esatto momento in cui è stata
realizzata e coinvolge ogni aspetto tecnico e morale che si è manifestato allora. Questo vale anche per il nostro debut album Hypnagogic Hallucinations, e per questo lo accettiamo sotto i suoi molteplici punti di vista. Ogni difetto intrinseco è una caratteristica riflessa delle persone che ci hanno lavorato insieme quattro anni fa. Del resto si matura con il tempo, è innegabile.

D: A tal proposito, è importante l’autocritica e il non essere ossessionati da un obiettivo? Alcune volte abbiamo l’impressione che molte band scelgano di evolversi per il gusto di garantirsi una fetta più ampia di pubblico, non c’è più un sentire profondo di cosa si suona.
R: L’autocritica ci sembra fondamentale per sapere come migliorare un qualcosa in via di realizzazione ma allo stesso tempo porsi un obiettivo aiuta a mantenere dei piani concreti in mente, i quali altrimenti faticherebbero a prendere forma. Spesso le nostre sessioni in studio si basano su un rewind del lavoro appena fatto e una riflessione su cosa potrebbe essere ottimizzato. Allo stesso tempo però non pensiamo si debbano avere dei rimpianti riguardo
ciò che ormai è stato, se non il sapersi guardare indietro e capire cosa è successo, con l’unico scopo di non cadere negli stessi errori, eventualmente.

Ed è per questo che siamo soddisfatti oggi, abbiamo realizzato Dreaming the Strife for Love con la certezza di aver fatto qualcosa per noi stessi, nel mondo in cui sentivamo di dover dar forma a quella necessità. Siamo lontani dall’aver scritto musica per aderire ad un determinato tipo di standard imposto da qualcosa sopra di noi e questo ci rende infinitamente appagati.

D: Sicuramente la vostra vita dopo l’uscita del primo album è cambiata, quale l’evento cardine che ha dato una marcia in più a tutto?
R: Se dev’esserci un momento degno di nota è stato di certo quello in cui siamo entrati nella famiglia di 20 Buck Spin. La fiducia che Dave Adelson e 20BS hanno riposto nel nostro progetto sin dal primo giorno è servita da carburante per dare un obiettivo concreto alla band. Dietro l’uomo d’affari, il suo parere è stato utile nei momenti decisivi o di disorientamento, ma anche per colmare quelle insicurezze che fisiologicamente possono sopraggiungere quando ci si mette a nudo nel fare la propria arte. In seconda battuta, ma di certo non per importanza, Bedsore non sarebbe la stessa cosa se non avesse incontrato quella magica persona che è stata Timo Ketola: nel nostro seppur breve viaggio in compagnia si è rivelato essere molto più di quanto si possa creditare in un booklet.

D: D’istinto ci ricordate la disinvoltura e solennità dei Messa, i Death di “Leprosy” e quelli più trasognati di “The Sound Of Perseverance”, i primissimi Opeth e il progressive rock tra Il Balletto di Bronzo e New Trolls di “UT”, ma liste e paragoni a parte, siete abili nel dosare – se mi passate il termine – i continui “sbalzi d’umore”. Quanto è importante l’aspetto extra-musicale nel rito della scrittura? Seguire il flusso di coscienza, lasciarsi andare, curare l’ordine degli elementi in funzione dell’emozione.
R: Grazie per i paragoni e i complimenti! Hai citato sicuramente molte realtà musicali che in qualche modo conosciamo, stimiamo e che abbiamo inevitabilmente inglobato dentro di noi. Ci chiedi quanto sia importante per noi? Ciò che troverete in Dreaming the Strife for Love è il frutto di della reciproca ispirazione che ci ha accompagnato per tutta la stesura dell’album, un rito intimo ed introverso dove ogni gesto, nota, orchestrazione hanno partecipato a comporre un equilibrio delicato con un proprio peso specifico. È questo atto creativo a determinare ciò che siamo, molto più di quanto possano farlo delle influenze decise a tavolino. Quindi, per risponderti in breve, è un aspetto imprescindibile senza il quale non saremmo qui a poter ascoltare questo album.

Per quanto riguarda le repentine transizioni che hai menzionato, queste appartengono al nostro linguaggio musicale e sono quindi parte di un processo creativo libero. Tuttavia, in questo caso specifico asservono anche la necessità di una narrazione extra-musicale: quella del caleidoscopico viaggio condotto da Polifilo, il protagonista di questo album. Le strutture tortuose delle tracce, i loro cambi dinamici o di tempo, gli intermezzi acustici rispecchiano la sequenza onirica del protagonista, oscillando costantemente tra tensione e rilascio, caos e armonia in maniera da riflettere i paesaggi in continua evoluzione del suo cammino iniziatico.

D: Parlateci della copertina, la storia che raccontate, della forza racchiude con sé il titolo dell’album, molto evocativo e struggente. Quando vi siete convinti che avevate davanti il tema giusto?

Partiamo dalla fine: il tema di quest’album ci è stato suggerito proprio da Timo Ketola mentre stavamo lavorando insieme ai bozzetti di Hypnagogic Hallucinations, seduti in pub nel centro di Roma, e successivamente discusso più volte con lui. In un primo momento, a dire il vero, non ci è neanche sembrato che ci fosse stato lasciato un messaggio di tale importanza: a portarlo a maturazione è stato il tempo, che lo ha fatto venire allo scoperto quasi per una necessità ormai non più prorogabile. E di certo la suggestione di Timo era corretta: non è un caso che il nome del romanzo allegorico a cui si ispira Dreaming the Strife for Love sia “Hypnerotomachia Poliphili” – letteralmente “Battaglia d’Amore in sogno di Polifilo”. L’insieme di tematiche così affini all’immaginario della nostra band ci è sembrato improvvisamente quello perfetto a cui dare vita musicalmente e così è stato. La scelta dell’artwork ha seguito un percorso molto simile e apparentemente causale.
Durante i primi studi del testo ci siamo imbattuti in due dipinti-studi di Denis Forkas Kostromitin rappresentanti una torre con campanile e una scena di battaglia fra un uomo e un drago. I temi erano perfettamente calzanti con quanto raccontato da Francesco Colonna, con nostra sorpresa. Un campanile immerso in un luogo ameno e brullo, dove una
scurissima ombra si proietta verso una direzione impossibile. Le visioni della battaglia d’amore in sogno di Polifilo partono proprio da questo: un’immagine suggestiva e terrificante prodotta in un ambiente meta-onirico che questo dipinto rappresenta appieno, senza tuttavia averlo voluto consciamente. Ci è sembrato da subito rappresentare la prosecuzione più naturale del lavoro portato avanti insieme a Timo.

D: Quest’emozione così incontrollata è forte soprattutto in Fanfare for a Heartfelt Love, appena tre minuti e mezzo ma saturi di instabilità, è forse il brano più destabilizzante, racchiude a sé un significato particolare?
R: Fanfare for a Heartfelt Love rappresenta una vera e propria fuga d’amore tra due amanti. Polifilo, quasi come una maschera mitica, rincorre la sua amata Polia ma è pronto per elevare la sua idea di amore a qualcosa di più aulico. rincorre il suo ideale di amore divino attraverso un ritmo ossessivo e che non si ferma mai.

D: Cosa vi ha spinto a scegliere l’italiano? Si deve molto alla voce, coprendo un ampio spettro (tra un Van Druden e il primo Mameli) rende i passaggi più ostici, “morbidi” all’ascolto.
R: È sicuramente la nostra lingua madre, la lingua nella quale ci sentiamo più a nostro agio per esprimere i concetti più intimi e che ci permette una maggiore profondità di espressione. L’italiano ci è da subito sembrata la lingua prediletta per rappresentare tutte le sfumature di un concept narrativo così variegato: ogni significato e parola nei testi è ben ponderata per rappresentare gli stati d’animo che si susseguono, da quelli più terreni a quelli più aulici.

Ma soprattutto l’italiano è la lingua di Francesco Colonna e in parte anche quella di Polifilo che, seppur parlando in volgare, rappresenta un ponte filologico fra noi e loro. Se poi in “Hypnagogic Hallucinations” abbiamo creduto fosse giusto adattarsi ad una linea più anglofona, nel caso di Dreaming the Strife for Love siamo giunti a maturare l’idea che in fondo non avremmo potuto fare altro se non questo. E tutto sommato non pensiamo di voler tornare indietro, siamo molto soddisfatti di questa scelta.

D: Su A Colossus, an Elephant, a Winged Horse; the Dragon Rendezvous fa capolino un sax. Pensate sarà la prima di una lunga serie di sperimentazioni? Durante l’ascolto abbiamo pensato spesso ai Devil Doll, avete mai pensato di lanciarvi nella follia dell’one-track album?

R: Grazie ancora, apprezziamo molto i Devil Doll! L’impiego di una tavolozza timbrica più estesa ci sembrava quasi un obbligo verso quest’opera rinascimentale, considerando anche la complessità delle tematiche trattate al suo interno. Il sax interpretato da Giorgio Trombino (Assumption, Bottomless, Dolore), i legni e gli ottoni prestati dalle orchestrazioni sintetiche del Mellotron, le trombe prodigiose e gli archi angelici sono frutto di una scelta stilistica mirata a questo. Di sicuro, come per la voce in italiano, è un tratto distintivo del quale andiamo molto fieri e che ci porteremo dietro.
Al momento non abbiamo pensato di avventurarci nell’impresa della one-track ma, chi lo sa? Potrebbe anche accadere un giorno.

D: In precedenza avete avuto l’onore di collaborare con Timo Ketola, venuto purtroppo a mancare dopo l’uscita di Hypnagogic Hallucinations. Con lui sembra ci sia stato un gran lavoro di empatia che sorregge l’opera.
R: In parte abbiamo già risposto ma si, confermiamo la tua impressione. Per alcuni di noi, il legame nei suoi confronti è andato oltre. Stare a contatto con lui, nella sua casa, tra dipinti e le mille fonti di ispirazione nascoste in ogni angolo accessibile è uno di quei ricordi che ci porteremo sempre dietro con nostalgia ed un pizzico di rammarico per come sono andate le cose. Ci dispiace che Timo non possa essere qui per vedere questo disco portato a compimento. Vogliamo tuttavia immaginare che lo avrebbe apprezzato nel profondo; questo disco è in fondo dedicato a lui.

D: A proposito di approccio alla composizione. Si sta parlando tanto del ritorno dei Blood Incantation, lo avete ascoltato? Il copia incolla di parti estreme e ambient non ci ha convinto, poi però vince tutto il resto: l’hype, uno scialbo passaparola e tutto si sgretola in men che non si dica. Cosa sta succedendo alla musica secondo voi? Trovate sia in uno stato di salute ottimale o sempre orientato verso il baratro?
R: Si, abbiamo avuto modo di ascoltarlo, certamente. Il dibattito è molto vivo, come succede spesso con le band che trovano una formula musicale azzeccata nella propria nicchia di riferimento. Di sicuro il saper vendere un’attitudine sta divenendo un aspetto sempre più primario e prioritario rispetto al senso stesso di fare musica: se si seguono gli stessi argomenti di una band in voga ci si sente rappresentati in un certo gruppo sociale. La forza di alcune proposte musicali è proprio quella di farci sentire parte di una comunità, piuttosto che mossi dalla musica in sé.

Quindi da questo punto di vista ci verrebbe da dire che c’è qualcosa che non torna nel percorso logico dal musicista all’ascoltatore, quest’ultimo che potrebbe sentirsi più in armonia con l’idea di appartenenza ad un gruppo sociale piuttosto che con la musica che sta fruendo. Detto questo, fondamentalmente ci sentiamo ottimisti e romantici riguardo il futuro dell’industria: speriamo nei musicisti che ancora comunicano realmente con i propri ascoltatori – e ce ne sono! – e cerchiamo di fare del nostro meglio per fare lo stesso.

D: Che ne pensate di “The Eternal Resonance” del progetto Sweven? Non avete fatto segreto della stima che nutrite nei confronti dei Morbus Chron e di ciò che fa Robert Andersson. Forse è un genio incompreso proprio per lo stesso motivo di cui parlavamo prima, ovvero esce tanto materiale ogni giorno e ci si perde.
R: Siamo grandi fan sia di Sweven che dei Morbus Chron! In tutta onestà, crediamo che abbia lasciato un segno importante, anche se il disco è passato in parte inosservato. Noi stessi ne siamo la prova: nonostante ci sentiamo evoluti e crediamo che ciò che facciamo oggi abbia raggiunto una maturità e un’originalità che ci appartengono, i suoi lavori all’epoca sono stati un grande stimolo per continuare con ancora più determinazione nella direzione che ci
eravamo prefissati.

D: Programmi per date live? Ci sarà il classico release party?
R: Al momento abbiamo un tour confermato insieme ai nostrani Fulci in Europa Centrale durante la prima metà di Febbraio e nel quale promuoveremo il nuovo album come non abbiamo mai fatto prima. Aspettatevi delle sorprese. Di sicuro appena avremo novità per un release party lo renderemo noto quindi seguiteci sulle nostre pagine per ulteriori
aggiornamenti.

 

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